Ieri è stato un giorno speciale. Esattamentre otto anni prima, infatti, mettevo al mondo la mia bambina. Per ogni donna la nascita di un figlio rappresenta un momento unico, fatto di mille emozioni che difficilmente si dimenticano. Nel mio caso però tutto questo è stato amplificato da un parto repentino e inaspettato: un malessere improvviso e la decisione di far nascere la bambina nel più breve tempo possibile, prima che potessero insorgere conseguenze fatali per entrambe. Di quel giorno ricordo tanta paura, la sensazione di trovarmi in un'altra dimensione e di vedere tutto dal di fuori, come se stessi guardando un film. E poi quell'attimo in cui ho perso conoscenza e la percezione di non essere sola, di avere accanto a me qualcuno che non c'è più da molto tempo...
L'anno scorso un'esercitazione per un esame universitario mi ha dato la possibilità di descrivere questa esperienza in un breve racconto, che è stato poi (con mia immensa gioia!) pubblicato insieme ad altri lavori dei miei colleghi. Oggi lo condivido con voi, dedicandolo prima di tutto alla mia dolcissima cucciola e poi a chi è "tornato" da me in quel breve momento, regalandomi un'emozione immensa che porterò per sempre dentro di me.
PRIMA DEL TEMPO
Tengo un diario fin dall’età di dieci anni. Riempire le pagine bianche con i miei pensieri e le mie esperienze mi ha sempre dato un senso di serenità interiore. Col passare del tempo questa abitudine si è fatta purtroppo meno frequente, ma nei momenti più significativi della mia vita sento sempre il bisogno di rivivere scrivendo ciò che mi è accaduto.
Nelle pagine che seguono vi è la rielaborazione del racconto di uno dei momenti più importanti della vita di una donna, ovvero la nascita di un figlio. Ancora adesso, nonostante siano passati ormai 7 anni, ho un indelebile ricordo di ogni singolo istante di quel giorno.
A causa di un’improvvisa quanto grave complicazione, mia figlia è stata fatta nascere prematuramente con un cesareo d’urgenza nel giro di pochissimi minuti. In quegli attimi la vita e la morte si sono intrecciate in un susseguirsi di emozioni…fortunatamente la vita ha avuto la meglio ed io sono qui a raccontare come è andata!
Mercoledì 14 luglio 2004
Con fatica cerco di uscire dallo stato di torpore che mi assale da qualche settimana a questa parte. Non riesco a stare sveglia per più di cinque o sei ore nell’arco di una giornata, come se la totalità del mio corpo stia giorno per giorno abbandonando ogni altra attività che non sia quella di nutrire e far crescere la creatura che porto in grembo. Sono alla trentacinquesima settimana di gravidanza e oggi devo essere sottoposta ad una visita medica. Mio marito è uscito di casa alle sette per andare al lavoro ed io proprio non riuscivo ad alzarmi a quell’ora, così dovrò prendere l’autobus per raggiungere l’ospedale.
Diverse volte, con amici e parenti, ho scherzato sul fatto che, abitando in un isolato paesino di campagna e rimanendo sola per la maggior parte della giornata, molto probabilmente sarei stata costretta ad utilizzare i mezzi pubblici per recarmi a partorire. Ma il giorno del parto è ancora lontano, mancano almeno cinque settimane e non posso fare a meno di pensare che saranno le più lunghe della mia vita. La mia pancia si è fatta decisamente voluminosa, i piedi e le caviglie si sono gonfiati a dismisura e compiere anche ogni banale gesto quotidiano richiede da parte mia uno sforzo considerevole.
Con fatica quindi mi preparo ed esco di casa, nel bel mezzo di una giornata limpida e soleggiata. Ho giusto il tempo di salutare un vicino che sta lavorando nell’orto e l’autobus arriva. E’ la classica piccola corriera blu che si vede nei paesi di campagna, con non più di quindici posti a sedere, la musica diffusa dalla radio e l’autista che saluta i pochi passeggeri che salgono e scendono.
Timbro il biglietto e mi siedo in prima fila, ricordando scherzosamente al conducente di andare piano e fare attenzione alle buche.
Una volta preso posto la mia piccola si fa sentire. I suoi movimenti sono però sempre lenti e dolci come un massaggio: niente calcetti, spinte o gesti bruschi. Mi chiedo quale aspetto avrà, a chi assomiglierà…è così strano tenere tanti mesi una creatura in grembo e non avere idea di quali siano le sue caratteristiche fisiche.
Assorta nei miei pensieri, quasi non mi accorgo di essere giunta a destinazione. Entrata in ospedale mi dirigo a consegnare l’holter pressorio, dopodiché il medico mi invita ad accomodarmi in sala d’aspetto, in attesa dell’esito dell’esame, che dovrò poi portare in ostetricia.
Mi siedo nel corridoio, sono sola e attorno a me percepisco un silenzio quasi surreale. Inganno il tempo guardandomi attorno, scrutando ogni particolare dell’ambiente che mi circonda, come sono solita fare quando mi trovo a dover aspettare. Improvvisamente però avverto un senso di malessere generale. Non vi presto inizialmente molta attenzione, dando la colpa al caldo e alla mia stanchezza, ma nel giro di pochissimo tempo la situazione si aggrava: la vista si annebbia, una morsa mi stringe lo stomaco e inizio a sudare freddo. Mi guardo attorno nel disperato tentativo di incrociare qualcuno a cui chiedere aiuto, ma il corridoio è completamente deserto. Cerco allora di gridare, ma le forze mi abbandonano, nonostante cerchi con tutta me stessa di evitarlo. L’ultima sensazione che ricordo è quella di scivolare verso il basso come se con forza venissi risucchiata dal pavimento…poi il buio.
Quando riapro gli occhi vedo attorno a me, avvolte in una strana nebbia, almeno cinque persone tra medici e infermieri. Uno di loro mi sta misurando la pressione sanguigna: -“200/150”- sento mormorare con preoccupazione. Da quel momento inizia un susseguirsi di corse in barella, di medici che si adoperano attorno a me con volti sempre più tesi, volti che mi scrutano alla ricerca di un piccolo segno di miglioramento. Alla fine la decisione giunge crudele come un’inaspettata condanna: la bambina deve nascere subito, prima che sia troppo tardi per entrambe.
Un senso di panico mi assale, non è in questo modo che avevo immaginato la nascita di mia figlia. Mi aspettavo dolore, sofferenza, anche paura, ma mai avrei pensato di trovarmi in una situazione simile: una corsa contro il tempo tra la vita e la morte, chiudere gli occhi senza sapere come andrà a finire. Dov’è mio marito che mi stringe la mano e mi incoraggia? Dove sono i parenti che passeggiano nervosi su e giù per il corridoio? Niente di tutto questo, nessuno a casa si immagina che cosa mi stia accadendo…sono sola in balìa del destino.
La vista si annebbia di nuovo, ancora una volta sto per perdere conoscenza e un senso di disperazione si fa largo dentro di me come un fiume che si riversa nel mio corpo…ho paura di morire senza poter nemmeno vedere la mia bambina.
D’improvviso il volto di mio padre, mancato undici anni prima, appare dinanzi a me. Mi rivolgo a lui come se ciò fosse la cosa più naturale di questo mondo, chiedendogli di fare in modo che tutto vada bene, di avere la possibilità di veder crescere la mia piccola e di passare tanti momenti felici insieme a lei. Ottengo come risposta un suo sorriso, che suscita in me un singolare senso di tranquillità. Questa piacevole percezione fa sì che mi abbandoni e chiuda gli occhi.
Mi sveglio con un fastidioso dolore al basso ventre e la sensazione che il mio corpo sia stato tagliato in due parti. Da un infermiere apprendo di trovarmi nel reparto di terapia intensiva: devo stare ventiquattro ore collegata ai macchinari, affinché le mie funzioni vitali siano monitorate.
Vedo arrivare mio marito, sorride nonostante il suo viso sia pallidissimo, e mi assicura che la bimba sta bene: è bellissima ed ha un ottimo peso per essere prematura. Uno alla volta si susseguono poi i miei parenti, nei loro volti percepisco una tensione che man mano si sta scaricando, ora che tutto è andato bene. Anch’io adesso mi sento più tranquilla, il mio unico cruccio è che non potrò vedere mia figlia fino al giorno dopo. Con una mano mi sfioro l’addome dolorante, il sentirlo vuoto provoca in me una strana sensazione di disagio…
Con rassegnazione mi preparo a passare il giorno più lungo della mia vita, in attesa di poter stringere tra le braccia la creatura che ho dato alla luce.
Giovedì 15 luglio 2004
Le forti emozioni provate mi hanno impedito di dormire. Ho passato la notte completamente sveglia a chiacchierare con gli infermieri, raccontando loro, fra sorrisi e lacrime, quanto mi è accaduto, ancora scossa per la travagliata esperienza passata.
Attendo con ansia di essere trasferita in ostetricia, finalmente io e Letizia (questo è il nome scelto per la mia bambina) potremo stare insieme, finalmente potrò vederla e tenerla tra le mie braccia. Ma le poche ore che mi separano da questo momento passano con una lentezza inesorabile, scandite da visite ed esami, i quali fortunatamente confermano che non vi sono più rischi per la mia salute.
Nel primo pomeriggio giunge l’ora di lasciare il reparto di terapia intensiva e l’imponente macchinario che per tutta la notte ha vegliato su di me, registrando con diligenza e costanza i miei parametri vitali. Percorro in barella il tragitto fatto di corridoi, ascensori, porte che si aprono e giungo in ostetricia. Vengo sistemata nell’unica stanza a due letti, dove al momento sono sola: la capo-sala ha deciso che merito un po’ di tranquillità dopo tutto quello che ho passato. Le sono grata di questa attenzione, ma ora il mio pensiero fisso è solo vedere la mia creatura, non posso resistere un secondo di più. Passano solo pochi minuti e nella stanza entra un’infermiera che tiene con una naturalezza estrema un piccolo fagottino: è lei, è la mia bambina! Nell’attimo in cui la donna me la porge le lacrime iniziano a bagnarmi il viso, senza che nulla possa fare per evitarlo. La mia piccola è semplicemente meravigliosa, con i suoi lineamenti tondi e dolcissimi, la pelle rosea e qualche sottile capello biondo. Sta dormendo beatamente ed il suo piccolo viso lascia trasparire un’innata tranquillità.
Nel preciso momento in cui la accolgo tra le mie braccia, Letizia spalanca gli occhi: un istante infinito in cui il suo sguardo incrocia il mio, come per scrutarmi, per memorizzare ogni dettaglio del mio viso. Poi, con un leggerissimo sospiro, richiude dolcemente le palpebre e si riaddormenta.
Io riesco solo a continuare a piangere e a ripeterle che è bellissima, non trovo altro modo per esternare la cascata di emozioni che mi travolge. La paura e l’ansia provate il giorno prima sono solo un ricordo ormai lontano. Istintivamente attacco mia figlia al seno e un brivido si scatena lungo il mio corpo. Mi abbandono a queste sensazioni, consapevole che un capitolo nuovo della mia vita sta per iniziare.
Rivolgo un ultimo pensiero al volto di mio padre apparsomi quando stavo per perdere conoscenza. Non saprò mai se lui fu veramente con me o se si trattò di una mia suggestione; sono solo consapevole del fatto che percepire la sua vicinanza in un momento così difficile ha per qualche istante colmato il senso di vuoto lasciato dalla sua scomparsa. Un vuoto che farà sempre parte della mia vita, mitigato solo dalla consapevolezza che nemmeno la morte potrà mai cancellare la sua presenza nel profondo della mia anima.